BISOGNO DI FUTURO*

di Barbara Mapelli

 

 

 

In quanto dico non entro nel merito in particolare dei contenuti dell’ecofemminismo – vi sono persone che ben più e meglio di me lo sanno fare – delineo però la storia e la necessità dell’alleanza che i due movimenti che compongono la parola hanno stabilito e devono continuare a stabilire e il valore educativo, in senso ampio, che tale alleanza possiede.
Femminismo ed ecologia: i due termini, infatti, con tutto quello che trascinano con sé ed evocano, di reale e concreto, ma anche di simbolico, pensato e desiderato, si coniugano bene insieme.
Sono tra le poche eredità che riceviamo e ricevono le nuove generazioni dal Novecento che ci consentono di aprire uno spazio di pensiero e azione sul futuro, che sembrano preservarci, difenderci – o almeno ce ne offrono la speranza - dalla brutalità del mondo.
Ci consentono di pensare che possiamo ancora immaginare il futuro, e ci consentono quindi di stare nel mondo, comunicare con gli altri e le altre e con la stessa realtà moralmente, e ciò significa pensare ancora di poter scegliere, di agire per qualcosa che ci sta a cuore, di distinguere ancora tra ciò che consideriamo bene e tra ciò che consideriamo male e assumercene la responsabilità
E’ quello che io chiamo,  ho sempre chiamato, il percorso per divenire soggetti morali.
Poter pensare al futuro significa possedere e credere nella possibilità dell’immaginazione, nella sua potenza e forza, a un tempo evocatrice e realistica: Tutto ciò che esiste oggi è stato una volta immaginato (Blake).
Forse può apparire ingenuo o una fuga dalla realtà questo parlare di immaginazione, eppure io credo che un pensiero, dei saperi, come quelli legati al movimento delle donne e al movimento ecologista (detti così sono due grandi approssimazioni e me ne scuso) che sappiano ridarci il desiderio e la competenza dell’immaginazione, la capacità di esercitarla ancora, aprano per noi la possibilità e la fiducia nel cambiamento, nell’alterità a ciò che ora nel mondo non sa renderci felici.
E poiché le donne si sono poste e si pongono – anche se non sempre fedeli a sé stesse – radicalmente come alterità alla storia degli uomini, al progresso che hanno perseguito, questa immaginazione, che propone nuove visioni di futuro, le azioni anche e i pensieri che la compongono (non è solo un sogno) può prendere, assumere il segno femminile.
(A questo punto due incisi, noiosi, ma necessari).
Primo. Le donne è un collettivo molto generico, ma fortemente evocatore e quindi continuo ad usarlo, anche se l’alterità femminile non è stata nella storia così pura ed innocente, bensì talvolta, o spesso, complice di chi ha diretto la Storia di cui siamo state vittime e ci lamentiamo; ma non ne siamo state le protagoniste, né le principali artefici, possiamo quindi a buon diritto tirarcene fuori, criticare, porci come alternativa e un’alternativa con il pensiero della nostra differenza in questi decenni la stiamo componendo.
Secondo. Non siamo sole, con noi ci sono uomini che credono a queste due utopie che ereditiamo dal Novecento  (e tanto più mi auguro, ma mi sembra che sia proprio così gli uomini più giovani), due utopie, a un tempo immaginarie e molto concrete, che speriamo di realizzare – e in parte qualcosa è già avvenuto. Continuiamo in ogni caso a usare il collettivo, donne, che ci consente di mantenere la trama e la direzione di questo femminile che guida e orienta la vicinanza tra femminismo ed ecologia.
E per tornare all’immaginazione e al suo segno femminile uso - prendendomi anche la libertà di modificarla e adattarla a quanto dico – una metafora di Bachelard (1).
Il filosofo francese si muove tra i due termini fuoco, maschile, e fiamma, femminile: il fuoco è funzionale e distruttivo, la fiamma, ad esempio quella di una candela, è qualcosa di più, provoca – ma proprio perché è tenue – il piacere di vedere, poiché non illumina con troppa chiarezza e non impone ciò che si è sempre visto, aiuta e insegna a guardare. Offre la visione del chiaroscuro, che eccede la realtà presente, ci consente di riprendere contatto con la nostra intimità e da lì con il mondo, per immaginarlo più vicino, che si rivolge a noi, anche se non ci è proprio dato di delinearlo con nitidezza in questa eccedenza che lo trasforma, ma proprio il chiaroscuro che offre la fiamma, al contrario della luce vivida del fuoco, costringe appunto a non dare per scontato, necessario e unico, ciò che si vede con chiarezza, ma insegna, appunto, a guardare, ad aprire occhi e orecchie, e anche il cuore e la mente, per ascoltare quelli che Foucault chiamerebbe i rumori di fondo (2), quei brusii meno forti delle voci altisonanti, ma che ci dicono di ciò che, inascoltato, andrebbe irrimediabilmente perduto; aiutano l’immaginazione, sono il chiaroscuro di parole che andrebbero risignificate.
L’immaginario che femminismo ed ecologia ci aiutano ad alimentare ancora, a cui danno parola, ci restituiscono, provano a restituirci, se il tempo non è scaduto, quello che è stato separato, artificiosamente separato e ci ha tolto parti di noi. Penso alla separazione tra donne e uomini, al privato e pubblico, al chiuso e all’aperto, allo stare e andare, al cono d’ombra femminile, alla luce vivida della storia degli uomini. E penso anche alla critica che l’epistemologia femminista, soprattutto statunitense, ha elaborato a partire dagli anni Settanta (da noi le traduzioni sono arrivate qualche tempo dopo) alle principali concezioni della scienza moderna, che ha sostanzialmente negato il rapporto olistico tra umano e natura, ci ha quindi separato – noi umani - dal resto del mondo, proponendoci in posizione di dominio e ha proposto un’interpretazione semplificata e meccanicistica dei fenomeni, per trasformare – così ci si esprimeva allora – la Natura da madre a schiava: In verità io vengo per condurre a te la Natura con tutti i suoi figli, per ridurla al tuo servizio e farla tua schiava (…) Possa io riuscire nel mio solo desiderio terreno, quello di dilatare fino ai confini promessi i limiti deplorevolmente angusti del dominio dell’uomo sull’universo (3). E questa euforia di progresso, perdita del senso del limite è giunta fino a noi, alla contemporaneità, ha permeato – e in larga misura ancora permea – le concezioni della scienza e tecnica dominanti, che vedono nella natura una macchina e non un sistema vivente (4).
La riflessione delle donne, il pensiero femminista hanno insegnato che l’esistere ed esistere nel mondo è in realtà una relazione, un intreccio di relazioni. Noi non siamo nulla, neppure un soggetto se non nella relazione che stabiliamo con le persone e le cose, che ci costituiscono. Questo pensiero ha sottratto il destino umano alla solitudine del soggetto maschile, specchio del medesimo (5), protagonista dell’imposta separazione tra i generi e della sottomissione di quello femminile, protagonista dell’illusione del cosiddetto progresso illimitato della scienza e della separazione tra umano e natura e sottomissione della seconda.
La metafora baconiana è tratta da un testo che definisce la scienza parto maschile: si affaccia ancora e sempre dunque il desiderio e l’invidia maschile per la capacità delle donne di dare la vita, mentre proprio nella lontananza dalla relazione e  dalla cura gli uomini trovano l’impossibilità di avvicinarsi alla vita.
Il compito e la possibilità che invece ci vengono affidati da queste due grandi utopie reali e concrete sono quelli di evocare cambiamento, a partire da quanto finora fatto e pensato, ma non soltanto, facendo conto sul desiderio e la fiducia che alimentano il nostro immaginare e il nostro bisogno di futuro. Basandoci su relazioni e pratiche condivise, saperi scambiati, che abbiamo ricevuto in eredità, un’eredità ben viva che cambia noi e può cambiare la realtà, contro il senso comune che evoca solo logiche di emergenza, interventi riparativi elaborati dagli stessi soggetti che hanno fatto danno e che si servono di logiche non diverse per porvi rimedio. Come scriveva Einstein, non è possibile risolvere un problema utilizzando lo schema mentale di chi lo ha creato (6). Un senso comune che appare diffuso e non sembra in grado di  dare spazio a un immaginario di cambiamento e trasformazione. Sappiamo di non poter determinare il futuro - né forse lo desideriamo - in forme vincolanti, ma possiamo parlare e agire e pensare e desiderare perché il nostro immaginario diventi visibile.  Prendendo posizioni autorevoli, e al tempo stesso non pretendendo di rappresentare la verità per tutti e tutte, l’universalità. Ed è anche questa una componente fondante la nostra costruzione personale come soggetti morali, è la nostra lezione pedagogica.

La cura e un po’ di storia

Accennavo come la critica alla scienza delle epistemologhe e scienziate femministe, soprattutto di cultura anglosassone, giunga nel nostro Paese intorno alla seconda metà degli anni Ottanta, grazie in particolare all’opera di diffusione, ma anche di riflessione di Elisabetta Donini. Siamo così venute a conoscenza, tra le altre, del pensiero di Evelyn Fox Keller e delle sue concezioni di un  fare scienza differente, che si concepisce attraverso forme, procedure più vicine all’empatia che all’invasività, ma anche la ricerca di valori morali quali l’accettazione del limite, la compatibilità e sostenibilità, l’etica della cura –mutuata dal modello materno – verso ogni essere vivente e l’intero pianeta. E le riflessioni di Fox Keller si concludono sulla necessità che il movimento delle donne e la sua critica alla scienza si alleino con altri movimenti di difesa del mondo (7).
Il suo pensiero giunge nel nostro Paese in ritardo rispetto ad elaborazioni più avanzate altrove, ma la cura, la sua sapienza e le competenze che consente di elaborare, il suo sapere materiale e immateriale, che appartengono al patrimonio e alla storia delle donne, insieme con la sua valenza etica – ma anche questo pensiero l’abbiamo ereditato da una pensatrice statunitense, Carol Gilligan – diviene il centro intorno al quale si può intrecciare la riflessione femminista con quella ecologica anche in Italia.
In un testo collettivo degli anni Novanta, dedicato ai temi della cura, appunto, Elisabetta Donini dialoga con Anna Segre proprio su questo tema, l’incontro dei due pensieri, dell’impegno civile, sociale e politico che i due movimenti possono avviare insieme (8). Nel loro scritto i termini eco femminismo o ecologismo femminista, indicati come vicini ma con alcune differenze, appaiono forse tra le prime volte in Italia, ma nel frattempo anche da noi giungono gli echi di movimenti di difesa della natura di cui sono promotori gruppi di donne, come protagoniste della continuazione della vita sulla terra (9). Donne anche molto lontane da noi, ad esempio Vandana Shiva ci racconta (10) del movimento Chipko in India, in cui le donne abbracciano gli alberi perché non vengano abbattuti e tutto ciò, ancora nuovo per l’Italia, diviene anche una salutare lezione per il nostro femminismo, non solo italiano, europeo, occidentale. Ci ricorda che un movimento che ha combattuto contro il falso universalismo maschile, ha corso il rischio di fare altrettanto, collocate nella nostra fantasia universalistica bianca e pura come un giglio, disincarnate e smaterializzate, abbiamo pensato davvero di non avere alcun colore (11). Vandana Shiva ci ricorda, con tutta la sua opera, che la società, con tutte le sue differenze, è stata ridotta unicamente alla società dei ricchi (12), ci parla di altre donne e il femminismo, bianco, occidentale, disincarnato, anche attraverso la visione ecologista, si sprovincializza, si apre al punto di vista dei poveri. Impara a ritessere con più complessità, ma anche più umiltà, quella trama di relazioni tra donne differenti, tra donne e uomini, con il mondo, con gli altri esseri viventi, attraverso lo sguardo, il pensiero, le azioni della cura che sono il modo di continuare ad essere le protagoniste della continuazione della vita sulla terra, anche con gli uomini, naturalmente, quelli che vogliono essere con noi.

Responsabilità di futuro

Arrivo dunque all’oggi, a questo bisogno di futuro che il contemporaneo sembra negarci e per il quale le due utopie reali e concrete appaiono come l’alleanza cui si può credere. E mi riferisco in queste ultime, brevi riflessioni a una donna che le ha coniugate insieme le due utopie, nel suo pensiero e nel suo agire.
Vandana Shiva scrive nel suo ultimo testo (13) che possiamo farcela, possiamo pensare e immaginare il futuro, tornando alla terra, collaborando con la natura, affidandoci al suo antico, sapiente metabolismo. E il passaggio dal petrolio alla natura è un passaggio non solo economico,  e non solo politico, è un passaggio culturale, che risponde positivamente al nostro bisogno di futuro.
Non so se quanto lei scriva possa avere l’efficacia quasi miracolosa che l’autrice affida al rapporto diretto – una relazione individuale – tra umano, tra soggetto e terra; traggo da lei soprattutto quello che posso capire e condivido, la straordinaria valenza educativa e forza simbolica del suo discorso e la capacità di comporre insieme cultura e cura, materiale e immateriale, spirito e corpo, ed è questa una sapienza di non separatezza che appartiene a noi donne. Vandana Shiva ci racconta della sua banca dei semi, attraverso la quale viene difesa la possibile diversità delle coltivazioni e al contempo la libertà degli agricoltori. Ci si difende così dalle monocolture estensive, che uccidono la biodiversità, ma ci si difende anche dalle monoculture della mente che uccidono le democrazie e anche le speranze, i desideri del futuro, la libertà degli esseri umani e delle altre specie non si escludono a vicenda, bensì si fortificano (14). Invita quindi a vivere la crisi che viviamo, che è di risorse materiali e immateriali, come un’opportunità, per rimettere in gioco  immaginazione e creatività, l’opportunità di recuperare la nostra umanità e il nostro futuro (15).
E questo significa anche nuove solidarietà, per preservare la Terra, le sue specie diverse, le future generazioni, anche di umani. La ricerca di energia rinnovabile, e Vandana Shiva cita Edgar Cahn, ideatore della Banca del tempo, si alimenta anche dall’energia rinnovabile della compassione, dell’empatia e della reciprocità (16).Come risposta a quell’energia distruttiva che crea povertà e carenza, ma anche mancanza di lavoro, felicità e sicurezza. Mancanza insomma di futuro ed è proprio questo che dobbiamo reclamare, per noi e per la responsabilità che abbiamo verso le nuove generazioni. I nuovi e le nuove che da poco o non ancora abitano o abiteranno il mondo.
 

 

Note


(1) La traggo dal suo volume, La fiamma di una candela, SE, Milano 1996

(2) Anche qui evoco con libertà dal testo, Il sogno, Cortina, Milano 2002

(3) Francesco Bacone, Temporis Partus Masculus, cit. in, Elisabetta Donini, La nube e il limite,Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p.99

(4) Vandana Shiva, Ritorno alla Terra, Fazi, Roma 2009

(5) Si veda il mio testo Dopo la solitudine, Mimesis, Milano 2007

(6) A.E. cit, in , Vandana Shiva, Ritorno alla terra, Fazi, Roma 2009

(7) Evelyn Fox Kller, In sintonia con l’organismo, La Salamandra, Milano 1987; Elisabetta Donini, Conversazioni con Evelyn Fox Keller, Eleuthera, Milano 1991

(8) Elisabetta Donini, Anna Segre, “Spazi di vita,cura dell’ambiente Un dialogo tra femmi nismo ed ecologia”, in, Aa.Vv., Il libro della cura, Rosenberg e Sellier, Torino 1999, pp. 113-140

(9) Carolyn Merchant, Radical Ecology, Routledge, New York 1992, p.183

(10) Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990

(11) Rosi Braidotti, Nuovi soggetti nomadi, Luca Sossella editore, Roma 2002, p.194

(12) Vandana Shiva, Ritorno alla terra, cit., p.70

(13) Vandana Shiva, Ritorno alla terra, cit.

(14) Ib., pp.197-8

(15)Ib., p.14

(16) Ib., pg.228

 

*Intervento tenuto da Barbara Mapelli al convegno DONNE E NATURA. PARADIGMI PER L'ECOFEMMINISMO, organizzato dall'Università di Foggia, il 4 e 5 novembre 2010